Data di pubblicazione: 14 Settembre 2020
Costruire in montagna o in luoghi naturali e protetti è sempre stato oggetto di disputa. Dagli anni ’70 in poi c’è stato un boom di costruzioni in quota tra condomini, impianti di risalita e grandi alberghi che secondo molti hanno contribuito solamente a deturpare il territorio. Negli ultimi anni si sta sviluppando una maggiore sensibilità e rispetto nei confronti della natura, del paesaggio e degli ambienti protetti: un trend di costruzione che punta alla qualità, rispetto che alla quantità
Per saperne di più abbiamo intervistato l’architetto Andrea Dal Negro, dello studio noa* network of architecture. Lo studio, composto da architetti e interior designer nasce nel 2011 a Bolzano, per espandersi a Berlino a partire dal 2018. Il focus principale dello studio è la progettazione di hotel e centri benessere: essendo partiti dall’Alto Adige, è naturale che molti progetti siano stati fatti in alta quota.
Parliamo di costruzione in montagna: che approccio avete con il vostro studio?
«L’idea dello studio è creare degli spazi che si adattino come un vestito al luogo in cui vengono progettati: il nostro stile è caratterizzato dalla ricerca dell’armonia tra spazi e luoghi, caratteristica unica per ogni progetto. Costruire in montagna molto spesso vuol dire farlo in luoghi naturali, protetti, dove non arrivano le automobili. Bisogna quindi costruire in maniera armoniosa rispetto all’ambiente circostante, evitando gli ecomostri di cemento anni ‘70. Uno dei nostri punti cardine è cercare di ridurre la volumetria percepita, magari sfruttando scarpate che inglobino parti tecniche dell’edificio, e scomporre la volumetria totale in piccole unità che non vadano a impattare troppo sul paesaggio».
Ci sono stati progetti che vi hanno fatto riflettere sull’impatto dell’uomo nei luoghi naturali?
«Un esempio è il rifugio Zallinger, a 2000 metri di quota in Alto Adige. Il progetto consisteva nell’ampliamento di un rifugio pre-esistente, costruito nel 1850. Dovevamo aggiungere nuove stanze, ampliare la zona ristoro e creare una piccola zona wellness. Per farlo abbiamo unito sostenibilità e rispetto dell’ambiente, costruendo un rifugio diffuso, costituito da piccoli chalet in legno locale, in modo da evitare grandi volumetrie che inevitabilmente avrebbero disturbato il paesaggio e la pace che si respira in quei luoghi. È stato un progetto molto interessante, in cui tutto l’intervento era mirato a minimizzare i consumi e le dispersioni di calore, per il quale abbiamo vinto anche il premio Klimahouse 2018. Inserirsi in un contesto naturale vuol dire anche lasciare l’architettura “un passo indietro” rispetto al paesaggio circostante. Ed è stata proprio quella la challenge per il progetto Zallinger: costruire ma ridurre il costruito, per creare sostenibilità sia dal punto di vista energetico che dal punto di vista antropico».
Parliamo di materiali di costruzione, quali sono quelli più sostenibili?
«In ambito di rivestimento si cerca sempre di andare a “chilometro zero”. Se parliamo di legno si lavora con ciò che si ha in casa, anche per dare continuità con l’ambiente circostante, soprattutto per i colori. Per quanto riguarda i materiali di isolamento termico ci sono dei materiali ecologici, come la fibra di legno, di cellulosa – che arriva dagli scarti della lavorazione della carta, o addirittura con la canapa, visto spesso nelle ultime ferie. Quello dipende tanto dalla committenza, però dove possibile si cerca di utilizzare materiali che siano più naturali possibile, per permettere all’edificio di “respirare” in maniera naturale, limitando l’utilizzo di plastica, poliuretano e polistirolo».
Un esempio di progetto con legno “trovato in casa”?
«Uno degli ultimi progetti si trova ai laghetti di Fiè: una capanna sul lago che funge da ristoro per i turisti e i viaggiatori. Lì prima c’era un’altra vecchia capanna, che non rispettava più gli standard igienico-sanitari, che è stata demolita dal comune. Al posto di questa, sempre con l’idea di ridurre la volumetria percepita – anche in questo caso abbiamo dovuto ingrandire gli spazi per renderlo uno spazio più inclusivo per i disabili –. Il legno che abbiamo utilizzato per questo progetto è quello recuperato dalla demolizione della vecchia capanna e del pontile adiacente. A livello visivo si vede la differenza tra il legno di larice invecchiato, sul grigio, e il legno nuovo, sul giallo-arancione: con il tempo il legno invecchierà assieme alla natura circostante».
Avete mai partecipato a progetti che hanno fatto nascere delle dispute?
«Noi ci occupiamo della progettazione e realizzazione, quindi spesso “schiviamo” la parte politica, che è materia della committenza. Un progetto che ha fatto un po’ di rumore è stata Iceman Ötzi Peak, la pedana panoramica dedicata all’uomo di Similaun, a 3251 metri nel ghiacciaio di Val Senales. Ci sono apprezzamenti, ci sono critiche. Di solito ci sono due principali schieramenti: chi afferma che una costruzione del genere valorizza il paesaggio, chi dice che non c’è bisogno di aggiungere qualcosa in un posto che è già perfetto così, perché si rischia solo di aumentare il turismo, e annullare la natura “pacifica” del luogo».
Come è successo nel lago di Braies…
«Il lago di Braies è l’esempio perfetto: negli anni è diventata una meta sempre più turistica – anche grazie alla serie tv “Un passo dal cielo” con Terence Hill -. Questo aumento dell’affluenza di persone ha un po’ rotto l’armonia del luogo: pensi di arrivare in un luogo bucolico e incontaminato ma sei circondato da centinaia di persone che si fanno le foto. Nasceranno sempre delle dispute in queste questioni: noi cerchiamo di minimizzare questo tipo di problema, facendo interventi il più soft possibile. Progetti come la terrazza panoramica non sono incentrati tanto sull’architettura in sé, quanto sull’aumentare le emozioni che la natura ci dà».
Foto di Alex Filz